mercoledì 23 marzo 2011

Libia: alcune riflessioni

Il tardivo intervento della comunità internazionale in Libia - che come altri avevo auspicato- ha immediatamente costretto tutti a riflettere sul quello che sta accadendo e sulle prospettive per il futuro. Resta chiaro, a scanso di equivoci, che la guerra è guerra.
Non voglio addentrarmi in analisi sulle strategie militari, sulla titolarità dell'intervento e sull'oramai evidente gioco di forza tra le potenze all'interno della coalizione e all'interno del fronte non interventista. Il dibattito è acceso e le dichiarazioni dei capi di stato e le analisi che sono in corso permettono a tutti di farsi un'idea chiara.
Vorrei però sottolineare alcune questioni:

- quando Gheddafi ha fatto levare gli aerei e bombardare gli insorti, tutti abbiamo gridato - non senza ragioni - al massacro. Quando poi le sue deliranti dichiarazioni hanno confermato che "avrebbe schiacciato fino all'ultimo quella banda di drogati" è parso evidente che bisognava intervenire;
- la comunità internazionale è un insieme di interessi e di strategie che difficilmente trovano sintesi. Interrogarsi sul perchè della lentezza, delle divisioni o sul perchè non si interviene in altri Paesi dove si violano sistematicamente i diritti umani, è un utile esercizio per la comprensione, ma non risolve la questione libica;
- che dietro all'aspetto umanitario - molto più spendibile per il "popolo" - vi siano interessi per il petrolio e il gas, nonchè per gli interessi economici che da oltre due decenni la Libia ha in Europa, mi sembra non solo evidente ma, perfino banale;
- che la Francia abbia accelerato l'attacco militare, sorprendendo perfino gli alleati, è chiaro. Quello che è successo in questi giorni di attacchi - soprattutto la richiesta di un "cappello" della NATO - ben inquadra le divisioni e le contraddizioni dell'Europa;
- che l'Italia, alle prese com'è con ben più importanti problemi, conti nello scacchiere internazionale "come il due di briscola" pare chiaro perfino ad un bambino;
-che per il passato la comunità internazionale - e l'ONU in particolare - possa essere più accusata di immobilismo che di interventismo mi sembra una questione scontata. Si permise il massacro di 1 milione di ruandesi, nel 1994, facendo gli osservatori di un film horror (vorrei ricordare che l'ONU autorizzò l'uso delle armi solo quando si colpivano i non-ruandesi), si osservò in silenzio quanto accadeva in Bosnia. Non a caso nel 2005 si approvò il principio della "Responsabilità di proteggere" ovvero che l'ONU si impegnava a proteggere le popolazioni civili dai propri tiranni. Principio evocato anche nella risoluzione 1973;
- che la Libia, essendo nel centro del Mediterraneo, riveste un ruolo, per contiguità e importanza, nel futuro quadro geopolitico dell'area a cui nessuno è disposto a rinunciare in termine di partnership;
- che nel passato i rapporti con Gheddafi siano stati viziati da opportunismo e ipocrisia, è sempre apparso evidente;
- oggi noi possiamo essere critici o meno sull'intervento militare. Ma deve essere chiaro che l'alternativa era lasciar fare, qualsiasi cosa;
- che per la comunità internazionale è più facile decidere di radere al suolo un paese piuttosto che sequestrare i beni personali dei dittatori è un'amara verità (la questione Mobutu insegna).

Fatte queste considerazioni, vi sono alcuni interrogativi a cui non possiamo sottrarci. Quando nel dicembre del 2010 iniziarono le prime sommosse nel Nord Africa, si intravide in quelle tenaci proteste, pagate con il sangue, una speranza di cambiamento in tutto il mondo arabo e nord-africano. Una speranza che aveva il volto di tanti giovani, di donne e di lavoratori, che chiedevano giustizia, democrazia e diritti. Oggi con l'intevento militare tutto questo è passato in secondo piano, anzi si mette persino in discussione la bontà di quelle proteste e il loro fine.
La domanda è quindi semplice, quanto giova alla causa democratica e al vento di cambiamento, l'intervento militare in Libia?
E ancora, una nuova classe politica, giovane e dinamica nel mondo arabo, continuerebbe ad affamare la propria popolazione, permettendo solo agli altri di usare petrolio e gas, senza che le ingenti risorse che da essi si ricavano possano contribuire allo sviluppo del proprio Paese?
Per il nostro mondo - che ribadiamolo ancora una volta - dipende dal petrolio e dal gas del mondo arabo, non è forse conveniente sostituire un dittatore con un altro, magari sventolando il pericolo del fondamentalismo, facendo in modo che tutto più o meno resti come prima?
Rispondere a queste domande forse aiuta, oltre le ipocrisie, a comprendere dove stiamo andando.
Credo che bisogna essere onesti, l'intervento umanitario e le strategie economiche e geopolitiche, si sono incontrate in questa occasione. In altre occasioni, putroppo, no.


Vi rimando anche ad una discussione su questo tema su Secondo Protocollo a cui ho partecipato

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